sabato 20 febbraio 2010

OMELIA DEL VICARIO GENERALE AI FUNERALI DI DON FRANCO

I figli di Zebedeo pongono a bruciapelo a Gesù una istanza che ha tutti i tratti della pretesa: “Maestro vogliamo che tu faccia quello che ti chiederemo”. Gesù ha appena annunciato per la terza volta la sua passione e questi discepoli sembra che abbiano in mente solo la propria carriera, sistemazione: vogliamo i seggi più vicini a te nel tuo Regno. Una domanda apparentemente impertinente per chi intende considerarsi discepolo di un Maestro. Ma tant’è: il rapporto con Gesù è franco e consente anche domande come questa, che Gesù prende sul serio. Perché apprezza la schiettezza e sta al gioco invitando a rendersi conto di quello che stanno dicendo: “sapete quello che chiedete?” Preferisco leggere così la trovata dei due fratelli, per l’irruenza del loro temperamento, già in altre occasioni manifestato. In questa franchezza e schiettezza del tratto ritrovo anche la figura di don Franco. Impossibile per lui nascondere quello che pensava e quello che sentiva. Lo si capiva subito e il suo linguaggio era senza mezzi termini. Era immediato e sbrigativo nei modi, ma non nei rapporti personali. A me personalmente piaceva molto questo tratto fin da quando andavo a trovarlo all’Oratorio della Maddalena e non mi è costato essergli sinceramente amico per dirsi reciprocamente quello che va e quello che non va. La schiettezza esprimeva in lui la scelta di campo convinta dell’essere prete, attestava la condivisione fino in fondo delle ragioni di una causa, la fedeltà alla parola data, la trasparente rettitudine nella gestione delle proprie responsabilità amministrative, la passione operosa per la Chiesa. Sapeva godere come un fanciullo dei successi di squadra delle comunità a cui di volta in volta si è dedicato, sia la parrocchia (S. Fereolo, Maddalena, Galgagnano, Quartiano, Pieve Fissiraga, Mignete), sia il Seminario e si meravigliava di chi non sentisse questa passione, come a dire: ma è la mia famiglia, perché non fare il tifo per lei, perché non soffrire delle sue disavventure? Era spontaneo e il Signore l’ha preso in parola.

L’ha condotto a rendersi conto progressivamente del prezzo della domanda che anche lui don Franco con il suo stile e il suo temperamento ha posto al Signore diventando prete. In fondo i due fratelli Giacomo e Giovanni chiedevano di stare con il Signore nel suo Regno in posti più vicini a lui, se non proprio riservati. “Sapete quello che chiedete?” Gesù li educa a capire che nel Paradiso non conterà il posto: lo deciderà il Padre e saremo tutti contenti; ma ricorda a loro che c’è un prezzo per arrivarci: è il calice della passione e il battesimo della immersione nell’umanità ordinaria con le sue virtù e i suoi peccati. Lo slancio spontaneo di adesione a Cristo ha conosciuto progressivamente questo prezzo: nelle vicende sofferte della sua famiglia, nell’incidente che lo ha portato a sfiorare la morte e lo ha segnato per il resto della vita, in questi due anni di travaglio tra timori e speranze, sempre lottando e resistendo ma con innegabile fatica.

E il prezzo della lotta con se stesso per contenere i propri limiti e portare a perfezione il restauro dell’immagine di Cristo scolpita in noi. Perché i limiti è facile vederli; ma il prezzo che si paga per vincerli lo conosce soltanto il Signore. E al Signore interessa solo questo.

E poi il prezzo della immersione tra la gente. La popolarità di don Franco era frutto dell’ospitalità accordata agli altri nella sua vita: con l’interesse fattivo per loro, con la tempestività dell’intervento per le famiglie, per la casa, per il lavoro, per la situazione di disagio. Il tutto con discrezione e generosità. Ma non gli interessava la stima degli altri. La cordialità, l’affetto sì; ma tutto per il Regno di Dio, perché comunità cristiana o Seminario potessero meglio rispondere alle proprie finalità di costruzione di tale Regno.

Il dialogo con Gesù che abbiamo ascoltato nel passo evangelico si conclude con il nuovo intervento di Gesù in risposta alle rimostranze degli altri dieci apostoli. Parole perenni rivolte soprattutto a noi preti: “i governanti dominano ... tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Appunto come il Figlio dell’uomo. Può coltivare un’ambizione il prete? Ce ne sono di lecite, che ci mantengono motivati e creativi. Ma ce n’è una che è tipica del prete. Perché non dovrebbe esserci l’ambizione di servire? Non è l’ambizione stessa di Cristo, venuto per servire e dare la propria vita? Non si chiama “ministero” l’azione e l’identità del prete? Questa ambizione ha caratterizzato la biografia personale di don Franco, veramente “servo buono e fedele”, sempre in piedi anche nel servire gli altri a mensa, sempre in movimento. Sentiva la propria ricompensa già nel poter essere a disposizione delle necessità. Per questo si schermirà del grazie che gli diciamo oggi come sacerdoti e come comunità, mentre lo salutiamo con nel cuore la nostalgia della sua inconfondibile presenza. La sua vita più che le sue parole hanno parlato per ricordarci la lezione dell’apostolo Giovanni, quello che chiedeva a Gesù un posto riservato, ma che poi si è accontentato di ammirare l’amore di Cristo: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Cristo ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”.

Oggi don Franco non c’è il vescovo a salutarti, ma ti ricorda in terre lontane. Ci sono qui tanti amici e soprattutto c’è qui san Bassiano che ti accompagna all’incontro con Cristo, lui che ha accompagnato in questo transito pensa, perfino sant’Ambrogio. Ti vediamo già in traffico nella portineria del Paradiso a tenere tutto sotto controllo. Possiamo allora stare tranquilli di avere anche noi a suo tempo l’ingresso assicurato.

Monsignor Iginio Passerini

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