Oltre 250mila vengono “arruolati” con la forza ogni anno. Di
questi circa il 30 % sono ragazzine. Il 12 febbraio scorso è stata la giornata
mondiale per far rispettare il protocollo ONU. Le azioni sono rapide e
terrificanti. Le milizie arrivano, ammazzano e rapiscono i bambini. Avviene
ogni giorno in Siria, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica
Democratica del Congo, Somalia, Myanmar, Filippine e Yemen. Sono 22 i paesi in
totale dove questa atroce pratica è diventata “normalità”, sia nelle forze
armate regolari che in quelle della guerriglia. Di questi minori rapiti circa
il 30 % sono bambine destinate ad occuparsi della cucina nei campi, delle
pulizie. La denuncia viene fatta dalla coalizione italiana “Stop all'uso dei
bambini soldato” in occasione della giornata ricordata in tutto il mondo. In
questa data infatti nel 2002 è entrato in vigore il Protocollo opzionale alla
convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, sul tema dei
minori nei conflitti armati: uno strumento giuridico ad hoc che stabilisce che
nessun minore di 18 anni possa essere reclutato forzatamente o utilizzato
direttamente nelle ostilità, né dalle forze armate di uno stato né da gruppi
armati. Ma nonostante siano 153 gli stati che hanno ratificato il protocollo,
il fenomeno è in crescita anche perché alle guerre “esterne” contro altri
stati, si sono aggiunti i conflitti interni in cui gruppi politici, fazioni,
gruppi religiosi o etnici si misurano tra loro. I bambini sono più facili da
trasformare in soldati leali, rapiti e allontanati dalle loro case, molti di
loro spesso sono sopravvissuti ai massacri delle loro famiglie e poi vengono
costretti a combattere, trasportare rifornimenti, svolgere ruoli di spie o
scudi umani, mentre alle bambine invece non vengono fatte impugnare le armi ma
devono occuparsi delle pulizie e delle cucine dei campi.
I ragazzi e le ragazze che sopravvivono alla guerra sono
spesso menomati da ferite o mutilazioni e hanno gravi condizioni di salute:
stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie, aids.
Manifestano inoltre ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati
testimoni o aver commesso atrocità: senso di panico e incubi continuano a
perseguitare questi ragazzi anche dopo anni. Sia chi riesce a scappare dai
campi dopo il rapimento sia chi viene abbandonato al suo destino perché non più
utile rischia di diventare un emarginato sociale. Hanno quindi difficoltà ad
inserirsi di nuovo in famiglia o nel clan, a riprendere gli studi. Le ragazze
in particolare sono tutte traumatizzate, molte sono gravemente malate anche
quando recuperano la salute, vengono considerate delle persone da respingere e
non riescono a sposarsi.
Per aiutare questi bambini sono in atto diverse iniziative:
l'associazione Coopi sta lavorando con l'UNICEF nella zona est della Repubblica
Democratica del Congo mentre l'associazione Intersos ha in atto il progetto di
educazione alla pace “Scuole solidali per il Congo: bambino sì, soldato no!” In
particolare, per sensibilizzare sul tema e far pressione per la ratifica
globale e il rispetto del protocollo opzionale ONU, la Coalizione Italiana Stop
all'uso dei bambini soldato ha appena lanciato un nuovo sito Bambini soldato.
Ognuno può fare la sua parte entrando nella sezione “Attivati”, dove scaricare
materiali e locandine da diffondere e condividere sui canali social per
partecipare e sostenere concretamente la campagna.
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